Il signore con la pistola
I pilastri che sorreggevano la pensilina della stazione, nudi e flagellati da una pioggia quasi orizzontale, non riparavano più di tanto. Ai pochi viaggiatori che condividevano la gelida attesa del treno che li avrebbe riportati alle calde spiagge calabresi fornivano solo l’illusione di un riparo, e non una reale protezione dal freddo. Sembrava impossibile che quella fosse la Stazione ferroviaria di Salerno, in fondo anch’essa Sud, e non la livida scenografia di una cittadina lombarda.
Me ne stavo rattrappito dietro il mio pilastro e, come tutti gli altri, attendevo l’arrivo del treno come fosse il Messia.
Il cigolio dei freni che bloccavano le ruote dei vagoni in arrivo ci colse quasi di sorpresa e ci tuffammo tutti nel sospirato tepore delle antiquate carrozze. Appena il tempo di sistemarmi nel primo scompartimento vuoto, ed il fischietto del Capostazione dava il via libera al convoglio. Mi lasciai cadere sulla poltrona, mentre il sangue riprendeva a scorrere nelle mie vene gelate.
Lento, quasi solenne, il treno si avviò. Pochi minuti, non saprei dire quanti, e, complice il silenzioso calore che mi circondava, mi assopii: era stata una giornata impegnativa, e la levataccia a cui mi ero volentieri sottoposto per accompagnare dei cari amici adesso presentava il conto. Non tentai neppure per un attimo di oppormi alla sonnolenza che mi appesantiva le palpebre. C’era tempo: il viaggio per la Calabria sarebbe stato molto lungo. Reggio era ancora molto, molto, lontana: più di quattrocento chilometri. In fondo una bella dormitina era quel che ci voleva!
E sognai. Sognai una piazza con tante persone che mi fissavano con malevolenza. Non era una situazione insolita. Mi capitava spesso quel tipo di sogno e, pur avendo in qualche modo la consapevolezza che si trattava solo di fantasie notturne, tanto erano ricorrenti, il senso di imbarazzo e di inadeguatezza che mi trasmettevano mi procurava una sofferenza reale. Tutta quella gente guardava me! E disapprovava. Sapevo già come sarebbe andata a finire! Di solito mi scoprivo sporco, malvestito o, addirittura, nudo. Quella volta no! Era una via di mezzo: ero in mutande; delle mutande bianche, lunghe sino ai ginocchi. Mi guardavo intorno, alla disperata ricerca di un posto dove nascondermi, dove trovare degli abiti per rivestirmi, ma imboccavo sempre strade che presto si trasformavano in claustrofobici cunicoli. Mi toccava avanzare di traverso, come le raffigurazioni degli antichi egizi. Poi, senza soluzione di continuità, il cunicolo diventava una scalinata senza passamano, sempre più stretta, che si avvitava all’infinito. E lassù, proprio in cima, di solito ci trovavo un soldataccio che mi respingeva col calcio del fucile, o un pazzo furioso che voleva farmi la pelle con un coltello per salumi. Invece no! Sull’ultimo gradino stavolta c’era Zoff, il portierone della nostra nazionale che qualche mese prima aveva vinto il campionato del mondo di calcio facendo saltellare di gioia la pipa del Presidente Pertini. Sembrava disarmato; poi tirò fuori dalla tasca una palla chiodata, legata ad una catena, e prese a farla roteare col braccio destro, mentre col sinistro mi punzecchiava la spalla.
Avrei voluto fuggire, ma i gradini dietro di me si erano sgretolati e Zoff avanzava, cattivo. Roteava la palla e continuava a picchiettare sulla spalla senza emettere un suono. Poi mi sembrò di udire qualcosa come “Ehi, signore…”. Sorrisi a quel “signore”, compiaciuto. Non ci ero abituato. Signore a me, che mi sentivo ignorato dalla gente, se non negli incubi! “Ehi, signore, sveglia!” Sveglia? Aprii prudentemente un occhio e, chino su di me, vidi un berretto di ferroviere, posato sulla testa di qualcuno che non somigliava affatto a Zoff. “Ehi, signore, sveglia! Deve scendere!” Aprii anche l’occhio di riserva. Era stato solo un sogno, realizzai. Nessun cunicolo, nessuna scalinata e nessun portiere, men che mai della nazionale di calcio.
“Siamo già arrivati a Reggio?”, domandai cercando di darmi un tono sostenuto, che le circostanze smentivano.
“Reggio?”, ripeté quello. “Quale Reggio? Siamo a Sapri. Questo treno muore qui!”
“Muore qui?”, ripetei, stupidamente, a mia volta.
Non dovevo aver recuperato nulla sul piano dell’autorevolezza: invisibile, come al solito. Il ferroviere non mi rispose neppure.
“Ma”, balbettai, “non è l’intercity per Reggio Calabria?”
“No, signore!” esclamò quello. Magari mi sbagliavo, ma cominciai ad avere l’impressione che quel “signore” non fosse molto riguardoso. L’avrei classificato tra l’infastidito e lo sfottente: insomma una presa per il culo! Ma non ribattei. Avevo torto, mi convinsi.
“Questo è un locale, e muore qui”, concluse con aria di sopportazione. “Le conviene scendere finché rimane in stazione. Tra non molto lo porteranno al deposito.”
Avrei voluto chiedergli tante altre cose; soprattutto come e quando sarei potuto salire su un altro treno a “più lunga gittata”, ma non volevo accentuare quella figura da quattro soldi. Oltretutto l’idea di essere depositato non mi sorrideva. Scesi a Sapri, come dichiarava la scritta bianca su fondo scuro che campeggiava sull’edificio della stazione.
Il tempo era ancora pessimo e sembrava già notte, sebbene fossero da poco passate le quattro del pomeriggio.
Anche Zoff era sceso, e mi guardava divertito, mentre cercavo di raggiungere la biglietteria fingendo una disinvoltura che sapevo di non avere. Ma, ecco, sull’altro binario c’era fermo un altro convoglio! Tanti, tantissimi, vagoni: non era certo un locale! Fui tentato di chiedere a Zoff dove fosse diretto, ma non volli dargli la soddisfazione di affibbiarmi qualche altro colpo di “signore”. Cercai una qualunque indicazione e, sul cartello giallo appeso accanto ad una delle porte del vagone più vicino, tra gli altri nomi delle destinazioni, lessi anche Reggio! Mi mossi d’impulso, ignorando la vocina che dentro di me raccomandava prudenza. Mi arrampicai, lesto, sui gradini del vagone e proprio lì, sulla piattaforma d’ingresso, un’altra divisa di ferroviere sembrò scansarsi per farmi passare. “Mi scusi..”, tentai di chiedere subito. Ma non fui abbastanza convincente, evidentemente, perché quello non sembrò avermi visto né sentito, e, senza darmi più retta di tanto, buttò lì un distratto: ”scusi lei, un attimo.” Poi si sporse col busto dalla portiera alzando un braccio in segno di conferma. Un altro fischio. Il treno si avviò; lui chiuse la portiera e ”..stava dicendo, signore?” chiese con un sorriso. Nessuna ombra di canzonature nel suo “signore”.
“Questo treno va a Reggio Calabria?” chiesi con una punta d’ansia.
“Questo da Reggio ci viene, signore”, rispose. E improvvisamente quel “signore” prese a somigliare a quello di Zoff. “Questo treno fa Reggio Napoli, non viceversa”, concluse con una punta di rimprovero.
Rimasi senza parole.
“Le conviene scendere alla prossima stazione, così non deve pagare il biglietto per questo treno, e lì aspettare il primo diretto a Reggio”, mi consigliò con aria furba.
Sì, devo ammetterlo! A quel punto avrei dovuto usare la testa, piuttosto che analizzare le sfumature degli appellativi. Ma quando quel coglione di ferroviere (lor signori vorranno scusare la volgarità, ma un altro termine non reggerebbe) mi diede la dritta fatale, ci si mise di mezzo anche l’anatomia, che li fa viaggiare in confezioni da due, e non fui da meno: accettai! Così di lì a poco mi ritrovai sul marciapiede, deserto, di una stazioncina perduta nel niente della campagna.
Certo, lo si poteva chiamare stazione solo con una buona dose di ottimismo, quel piccolo gabbiotto, appena più grande della scritta che sorreggeva. Sembrava poco più che un punto di sosta per il personale viaggiante. Ma c’era comunque una biglietteria. Mi ci diressi a passo deciso. Il tipo dietro il vetro sembrò stupito di vedermi, o meglio di vedere qualcuno che scendeva dal treno. Evidentemente non era un fatto usuale. Mi accostai al buco nel vetro e chiesi quando sarebbe passato il successivo treno per Reggio Calabria.
Ecco! A quel punto lui sembrò davvero meravigliato! “Per Reggio, dice?”
“Per Reggio”, confermai, mentre già sentivo che sarebbe arrivata un’altra fregatura.
“Mah, vediamo…”, rispose dubbioso, dando piglio ad un librone. “Ecco, come ricordavo…il prossimo passerà alle quattro e trentasei del mattino”.
Quasi dodici ore! Possibile? “Ma come?” protestai, “sino ad allora non passa un treno diretto a sud?”
“Oh, per passare, ne passano tanti. Quello delle quattro e trentasei è il primo che si ferma!”
E poi aggiunse… ”signore!”
Gli lanciai un’occhiata che speravo risultasse molto torva e lasciai la stazione, cercando di convincermi che sarebbe andato tutto bene e sarei riuscito a tornare a casa. Pensai pure di telefonare ai miei per tranquillizzarli, ma non avevo gettoni con me e non volli rischiare di chiedere a bigliettaio. Mi aveva suggerito di andare in paese, lì vicino, per cercare un’auto a noleggio, o anche un passaggio ad un automobilista, che mi riportasse almeno a Sapri, da dove ero arrivato, e dove si fermavano praticamente tutti i treni. Avevo fatto il giro dell’oca!
Mentre mi avviavo lungo la via, deserta, che conduceva in paese, per la prima volta cominciai a temere per la mia incolumità. La sera era ormai prossima e c’era luce appena sufficiente per riconoscere l’asfalto della strada. Cercai conforto nel freddo metallo della pistola che da qualche tempo portavo alla cintola, discretamente infilata in una fondina interna: con quella potevo viaggiare tranquillo, mi dissi carezzandola. Dopo un paio di chilometri, quando cominciavo a pensare di dover passare la notte all’addiaccio, a qualche decina di metri vidi il riflesso giallognolo di una luce. Mi si aprì il cuore. E accelerai il passo. Man mano che mi avvicinavo, prendeva forma un edificio basso con un paio di finestre illuminate. La logora insegna che sovrastava la porta di quello che evidentemente era un esercizio commerciale aveva perso da tempo più di una lettera, ma non aveva importanza di cosa si trattasse: era il contrario del freddo e del buio che mi lasciavo alle spalle. Provai a bussare. Non mi rispose nessuno. Allora abbassai la maniglia, e chiesi: “permesso?” La porta si aprì con un cigolio. C’era un solo locale, per quel che potevo vedere, con un banco sulla destra, e un paio di vecchi tavoli di fronte. Sulla parete di fondo erano allineate tre botti. Ad uno dei tavoli quattro persone dall’aspetto poco rassicurante; al banco, uno di qua e uno di là, altre due. Era un’osteria, e non ne fui felice.
Salutai. L’uomo dietro al banco disse qualcosa che non afferrai; quello di fronte a lui, che teneva in mano un bicchiere di vino, si girò a guardarmi. Gli altri risposero a voce alta, troppo alta: “buonasera, buonasera!” Mi sembrarono incuriositi, in qualche modo interessati al mio ingresso. Non mi piacque, e mi diressi verso il banco di mescita.
“Buonasera”, ripetei.
“Salute”, mi risposero i due quasi all’unisono.
“Scusatemi. Avrei bisogno di un’informazione.”
“Dite!” mi incoraggiò l’oste.
“E a noi non volete chieder niente, straniero?” chiese con tono provocatorio qualcuno di quelli seduti al tavolo.
“Già! Chiedete qualcosa anche a noi!”, aggiunse qualcun altro. Mi girai un attimo e dedicai loro un breve sorriso, come per ringraziare e poi, rivolto all’oste: “avrei bisogno di tornare a Sapri. Sapete dove posso trovare un’automobile a noleggio, o un’auto di piazza?”
“Ma qui?” chiese, più che rispondere, l’oste. “Voi cercate un autonoleggio, qui?” si meravigliò.
“Ho preso il treno sbagliato e devo tornare indietro”, cercai di spiegare, prima di rendermi conto che stavo fornendo un altro argomento ai ceffi seduti al tavolo.
“Avete perso un treno?”, chiese subito infatti uno dei quattro.
“No!” Lo interruppe uno dei suoi compagni. “Ha sbagliato a salire. E ha sbagliato pure a scendere!”, mi canzonò.
Seguirono alcune sguaiate risate.
“Già! A scendere”, ribadì una terza voce, senza sforzarsi di camuffare il tono intimidatorio.
Di nuovo mi voltai verso di loro, facendo finta di stare al gioco, come se stessero scherzando, ma il mio sorriso doveva essere piuttosto tirato. Avevano delle facce da galera ed era chiaro che stavano cercando la lite. Dovevo fare in fretta! Contro quattro gaglioffi anche la pistola mi sembrò poca cosa.
“Beh, sì!” risposi all’oste. “Credo che Sapri non sia tanto distante, ma non penso di poterci andare a piedi. Oltretutto sta facendo buio! Andrebbe bene anche un passaggio in auto, pagando naturalmente!” aggiunsi preoccupato.
A quel punto il tipo che stava bevendo al banco si interessò improvvisamente al discorso, sin allora ignorato, e si precipitò: “ci devo andare io, a Sapri! Glielo do io un passaggio. Andiamo!”, aggiunse, ingollando di colpo il vino che restava ancora nel bicchiere. “Andiamo!” ripeté, avviandosi all’uscita.
Ero perplesso. La situazione mi stava sfuggendo di mano: meglio lui, o meglio i quattro? Non ebbi il tempo di valutare bene, ma lo seguii senza una parola, mentre lui indirizzava un po’ a tutti un generico “salutiamo!”, prima di imboccare la porta di uscita. Aggiunsi anch’io un “salve”: ci guadagnai qualche occhiata perplessa, che continuai a sentirmi perforare le spalle quando imboccai a mia volta la porta. Ormai il dado era tratto. Il destino aveva scelto per me!
Era calata la sera. Fuori il buio era quasi totale, appena rischiarato dalla luce delle finestre. Mi guardai intorno. Un paio di auto, cui non avevo fatto caso prima, erano malamente parcheggiate nello spazio antistante l’osteria. Cercai di intercettare quella sulla quale era salito il bevitore. Mi sembrarono entrambe vuote. Mentre mi ci avvicinavo per controllare meglio, sentii alle mie spalle uno scoppiettio anticipare una voce: “sono qua!”. Veniva da una Ape a tre ruote che, amichevolmente, spalancò uno sportello per invitarmi a salire. Un’Ape, e anche della cilindrata più piccola, realizzai mentre, ammutolito, salivo a bordo. Tutto si era svolto tanto velocemente da non consentirmi di riflettere bene su quello che stava accadendo. Mi sedetti. Ma come diavolo ero finito su un’Ape 50, a tre ruote, minuscola, guidata da uno sconosciuto incontrato in una squallida osteria? Cominciai a temere per la mia pelle! L’abitacolo, strettissimo, somigliava molto agli angusti spazi dei miei incubi; la posizione di guida, a braccia necessariamente allargate, del mio ospite mi costringeva ancor di più in un angolo. Per un attimo pensai di aprire lo sportello e riconquistare la libertà con un bel ruzzolone, come nei film, ma ormai avevamo acquistato velocità e mi sarei fatto male certamente. Il guidatore, intanto, aveva cominciato a parlarmi. Lo faceva guardandomi in faccia, e ad ogni frase le zaffate alcoliche nel suo alito mi stordivano, mentre l’Ape le assecondava con delle sbandate che lui correggeva a fatica, spesso innescandone altre. Ma come diavolo mi ero ficcato in quel guaio!
“Vedete, queste sono brutte zone, specie di notte! Non conviene andare in giro a chiedere passaggi a sconosciuti”, andava dicendo tra una zaffata e una sbandata, “si incontra brutta gente!”
Avevo avuto qualche momento di perplessità quando si era così estemporaneamente offerto di accompagnarmi, ma ero tanto intento ad evitare la rissa con gli altri quattro, che non avevo valutato appieno che mi stavo mettendo nelle mani di uno avvinazzato sconosciuto. Adesso, poi, quei discorsi... Fu allora che cominciai a pensare al peggio! Mentre il malconcio faro di quel singolare veicolo, lottava, non sempre vincitore, con il buio umido che ci assediava, mezzo stordito dall’alito vinoso del guidatore che mi avvolgeva in una nube maleodorante, capii che in qualche modo dovevo fermarlo, prima che fosse troppo tardi. Come se avesse voluto confermarmi nel mio proposito, lui continuava: “avete visto quei tipi seduti al tavolo: quattro delinquenti! No, caro signore, queste sono brutte zone!”
Dovevo fermarlo! Ero tutto sudato, nonostante il freddo e l’assenza di riscaldamento di quella trappola.
“Sì! Proprio brutte zone. Da evitare!”
Una rabbia incontrollabile mi aveva preso le viscere, e sentivo il sudore colarmi lungo la schiena. In quel momento decisi: gli avrei sparato; l’avrei buttato giù dall’Ape e, una volta raggiunta Sapri... Beh, qualcosa mi sarei inventato. Non avevo idea della direzione in cui stavamo viaggiando. Ma te li faccio vedere io gli sconosciuti da evitare, maledetto ubriacone! Agitato come mai, rispondevo a monosillabi al suo dire e intanto pensavo a come uscire da quell’impiccio prima che fosse troppo tardi. Gli avrei sparato, ormai era deciso! C’era un problema, però: avevo la pistola nella fondina, sul fianco destro, quello incastrato nell’angolo tra sedile sportello, ma il caricatore lo avevo messo nella tasca posteriore dei pantaloni, e mi maledissi! Decisamente non era la mia giornata migliore quella; però era anche colpa dei regolamenti, mi giustificai. Già! Perché era stato per rispettare quello sul trasporto delle armi che, salendo sul treno, avevo disarmato la pistola separandola dal caricatore. E adesso? come facevo a sparare al conducente? Mentre cercavo una soluzione, lo controllavo di sottecchi: di lì a poco si sarebbe certamente fermato in aperta campagna per rapinarmi. Magari aveva un coltello sotto la giacca e, in quello spazio angusto, avrebbe avuto buon gioco. L’avessi almeno messo nella tasca anteriore, quel maledetto caricatore! Cercai di sollevare una natica per verificare se riuscivo a sfidarlo dalla tasca senza insospettire il guidatore. Sì, ma poi cosa facevo? Gli chiedevo di aspettare cortesemente un momento perché dovevo tirar fuori la pistola, caricarla e sparargli? Dannazione!
Intanto lui continuava il suo monotono discorso sui rischi di frequentare quei posti. L’ho capito, non temere! Dammi un po’ di tempo e ti aggiusto io! Con una contorsione disperata, che speravo fosse passata inosservata, riuscii ad afferrare un capo del caricatore tra l’indice e il medio della mano sinistra. In equilibrio sulla natica destra, tra una sbandata e l’altra, lo sfilai dalla tasca.
Lui mi fissò un momento, senza parlare. Che avesse notato i miei armeggi?
Ma ormai non potevo fare marcia indietro! Con fare noncurante, portai la mano sinistra tra le gambe e serrai il caricatore tra i ginocchi.
Grondavo di sudore, ma il più era fatto! Adesso non mi rimaneva che sfilare la pistola dalla fondina con la destra... Anzi no, meglio con la sinistra, così avrei potuto infilare il caricatore nel calcio e trovarmi la pistola nella mano giusta per spianargliela contro. Col cuore che mi martellava in petto, iniziai la manovra.
“Per questo ho pensato di accompagnarvi io: quei tagliagola vi avrebbero certamente rapinato!”, concluse il guidatore mentre, sbucati improvvisamente da una strada secondaria, ne imboccavamo una larga e illuminata a giorno.
Col viso in fiamme, coprii il caricatore con la mano sinistra e mi guardai intorno, smarrito. Pochi metri più avanti, un cartello ci dava il benvenuto a Sapri. Ancora qualche zaffata e qualche lieve sbandata e ci fermammo davanti al marciapiede della stazione.
Ci volle del bello del buono per convincere quel brav’uomo ad accettare una mancia che lo ristorasse almeno della spesa della benzina. Provò fino all’ultimo a resistere, quando gli allungai ventimila lire.
Poi si arrese, con un sorriso: “grazie, signore”!