Una vita, una chance.
Calabria, febbraio 1970
L’uomo dietro il banco di vendita aveva un’espressione molto seria e gli occhiali da presbite, poggiati sulla punta del naso, la rendevano anche vagamente dottorale. Alzò lo sguardo e gli sorrise, come per incoraggiarlo ad avanzare:
“Buona sera!”
L’altro, di qua del banco, rispose: “buonasera” e, senza aggiungere nulla, gli porse la tela che voleva fare incorniciare.
Lui prese ad osservarla attentamente, con l’aria di chi si trova di fronte ad un problema da risolvere. Dal soffitto, dietro di lui pendevano bastoncini di legno di ogni lunghezza e colore: gialli, dorati, lisci, lavorati… Anche buona parte delle pareti sfoggiava la stessa tappezzeria. Pensoso, rigirava la tela alla ricerca della luce migliore per valutarla.
“Avete già un’idea di cosa cercate?”, gli chiese infine.
“Direi di no,” rispose, “fate voi!” Sorrideva appena, con aria vagamente imbarazzata, come se quella conversazione gli creasse disagio.
Il corniciaio stirò le labbra in un sorriso più aperto, di approvazione.
“Sapete, ogni tela ha bisogno della sua cornice, quella giusta intendo, che in qualche modo la completi: ci si deve trovare bene dentro”, aggiunse sempre rivoltando la tela tra le mani. “Non la si può costringere dentro confini che non senta propri. La cornice è definitiva!”, concluse lapidario.
Rimase ancora per qualche momento in silenzio, quindi si girò e scomparve, inghiottito da una porticina alle sue spalle.
C’era un vago odore di vernice e, qui e là, qualche cavalletto con il suo bel quadro in esposizione. Nessun rumore.
Non doveva essere divertente starsene lì tutto il giorno ad aspettare, pensò il cliente. In piedi tutta la giornata, poi! Ma... possibile? Cercò di sbirciare dietro il banco alla ricerca di qualcosa su cui poggiarsi: nulla! Quanto poteva rendere un lavoro di quel genere?
Il leggero scampanellio che segnalava l’apertura della porta precedette di un attimo l’ingresso di un altro cliente. Appena il tempo di lasciare insinuare nel relativo tepore del negozio l’alito pungente della fine di febbraio, ed un ticchettio leggero riempì il locale. Passi femminili, giudicò, prima di girarsi. Si scambiarono un muto sorriso di saluto; lei si accostò al banco, quasi riluttante, e si dispose ad attendere.
Passò ancora qualche minuto. Del gestore nessuna traccia.
Avevano finito, entrambi, di guardarsi intorno fingendo interesse per questo o quel bastoncino quando, finalmente, l’uomo si risolse ad osservarla con maggiore attenzione. Doveva avere più o meno la sua stessa età, ormai non più verde; intorno ai quaranta, giudicò. Una bella signora nel complesso, bruna, con una figura ancora slanciata. Solo gli occhi stonavano col resto: erano scuri e stanchi, come provati dalla vita. Qualche piccola ruga, piuttosto che smorzarlo, ne accresceva lo charme.
Probabilmente l’aveva osservata con troppa attenzione, perché lei, dopo un’impercettibile aggrottare di ciglia, gli sorrise quasi divertita.
“Avete finito?”, chiese.
Doveva essere arrossito, pensò, perché il sorriso di lei, già bello, aveva preso ancora più luce e gli occhi... no! gli occhi conservavano ancora un che di mesto. Ma sorrideva.
“Vi prego di scusarmi, provò a dire, “non volevo...”
“Via! State sereno!”, adesso sembrava davvero divertita.
“E’ che... mi sembra di conoscervi”, realizzò a voce alta.
Ma dove s’era cacciato il filosofo della cornice?
Eppure, sì! Aveva davvero l’impressione di conoscere quella signora.
Si ritrovò ad averglielo chiesto, senza accorgersene.
Lei sorrideva ancora.
“Certo! ci conosciamo! Voi non avete frequentato il liceo Campanella subito dopo la guerra?”, gli chiese, di rimando.
In un momento, lui la rivide più giovane di una ventina d’anni. E rivide anche i suoi occhi, allora decisamente più fiduciosi. Gli tornò in mente la sua figuretta mentre veniva giù dalla strada che conduceva a scuola, anche allora con un passo esitante, abbracciata ai pochi libri che all’epoca si portavano in classe.
Rivide anche se stesso, col suo bravo vestitino da liceale, fermo all’angolo tra le strade che costeggiavano il liceo.
Risentì lo stomaco contrarsi alla sua vista, ed il cuore accelerare mentre si girava di spalle, perché lei non potesse cogliere il suo turbamento, e per mettersi nella prospettiva migliore per seguirla con lo sguardo, quando avesse svoltato l’angolo per imboccare le scale del liceo.
Quanto gli era piaciuta, in quegli anni! Quanto l’aveva pensata, ogni sera, riproponendosi di trovare il coraggio di parlarle, all’indomani.
Avrebbe dato chissà cosa per poter avvicinarla, conoscerla, parlarle e... chi sa!
Doveva avere un’espressione particolarmente buffa in viso, travolto com’era dai ricordi, perché lei adesso sorrideva apertamente, mentre aggiungeva: “Voi non siete Giuseppe Gattullo?”
“Sì, certo”, biascicò in qualche modo, “ricordo perfettamente, ora! Vi vedevo spesso quando scendevate giù verso scuola.”
“Mi vedevate, dite?”, rispose lei, dolente, “beh! anch’io vi notavo spesso, fermo all’angolo, mentre venivo giù. Ma voi, al liceo, eravate... inavvicinabile!”
Riuscì a stento a non restare a bocca aperta. Ma fu solo un attimo: “no, signora! Io, al liceo, ero solo stupido!”, confessò smarrito.
Finalmente sorrisero anche gli occhi, per un momento, appena velati da una quieta malinconia.